In scena la menzogna

Il telefono è uno strumento che consente di mentire senza essere immediatamente scoperti, nella realtà come nella sua funzione narrativa. Il cinema ha il potere di mostrare la menzogna, lo scherzo, la simulazione mentre si compiono. Ambiguità, simulazione, doppio gioco sono ingredienti tipici del noir, uno dei generi più fortunati del cinema classico, in cui l’abilità autoriale consiste nel creare situazioni che sembrano sfuggire al controllo del protagonista come dello spettatore in sala. Nei noir il telefono è spesso elemento connettivo di una trama che si districa tra verità e menzogna. Dietro una voce al telefono è possibile nascondere o camuffare un’identità, il tono della telefonata può prestarsi al doppio gioco e alla dissimulazione, un’ attesa o inaspettata chiamata può fornire una soluzione investigativa o viceversa depistare un’indagine. Non c’è nessun buon investigatore che non sappia giovarsi delle molteplici soluzioni che l’uso del telefono offre, per chiedere o carpire informazioni, per suggerire vere o false piste.


Che ne sarebbe di Philip Marlowe senza uno spregiudicato uso del telefono? Nell’ultima scena de Il grande sonno (The Big Sleep, Usa 1946) di Haward Hawks, una telefonata del detective (impersonato dal suo più memorabile interprete, Humphrey Bogart) è un esempio dell’arte dell’inganno. Marlowe, con al fianco la bella Vivian Sternwood (Lauren Bacall), compone il numero di Eddie Marsh, che poco prima ha tentato di farlo uccidere. Intimando alla donna il silenzio, si procura un appuntamento con l’avversario, mentendo sul posto da cui sta effettuando la chiamata. Il particolare è decisivo, perché Eddie arriverà di gran fretta per tendergli un agguato, e invece finirà in trappola lui stesso. 
La confidenza di Marlowe/Bogart con l’arte della menzogna applicata al telefono è utilizzata anche nella prima parte della pellicola per mettere in scena un improvvisato “scherzo”.  La sequenza inizia nello studio dell’investigatore. Vivian chiede di poter usare il telefono, sempre in bella mostra sulla scrivania, per chiamare la polizia e mettere nei pasticci Marlowe. Lui la lascia fare ma, intuendo che l’ostilità della donna è solo di facciata, non appena la stazione di polizia è in linea, improvvisa una conversazione piena di equivoci, che, conquistata la complicità di Vivian nello scherzo telefonico, manda in confusione il poliziotto dall’altra parte del filo. All’interno del noir, dunque, grazie all’ambiguità del telefono, può aprirsi un siparietto da commedia.
 
In Susanna (Bringing Up Baby, Usa 1938), sempre di Haward Hawks, Cary Grant, icona per oltre un trentennio della commedia brillante hollywoodiana, interpreta il ruolo di un impacciato zoologo, David Huxley, la cui vita è sconvolta dall’incontro casuale con l’intraprendete ereditiera Susan (Katharine  Hebpurn) che gli manda a monte l’imminente matrimonio e lo caccia in situazioni imprevedibili. In una delle scene più note del film Susan, mentre parla con David al telefono, portando a spasso l’apparecchio telefonico nel suo lussuoso appartamento, inciampa nel filo e cade rumorosamente. A quel punto coglie al volo l’occasione per drammatizzare la situazione (fa cadere a terra un vassoio, frega la cornetta del telefono contro il copritermosifone) facendo credere al suo interlocutore di essere aggredita dal leopardo di cui prima i due avevano parlato. David abbocca e così Susan raggiunge l’obiettivo di farlo correre da lei.
 
In Le mie due mogli (My Favorite Wife, Usa 1940) di Garson Kanin, Cary Grant è Nick Arden, un bigamo suo malgrado. Persa la moglie in naufragio, dopo sette anni, credendola morta, si è risposato, ma proprio allora lei ricompare sana e salva. Dunque lui si trova nell’imbarazzante situazione di dover rivelare alla nuova sposa, Bianca Bates (Gail Patrick), l’esistenza della precedente e la sua intenzione di tornare con lei e con i suoi due figli. Non ha il coraggio di affrontarla di persona  e dunque decide di comunicarglielo per telefono, chiamando da una cabina dell’albergo dove alloggiano. Bianca, convocata al telefono, viene indirizzata in una cabina quasi attigua alla sua. La macchina da presa li inquadra entrambi, l’uno accanto all’altro, mettendo in risalto l’inconsapevole vicinanza. Lui tergiversa, senza affrontare l’argomento che si era proposto. Lei domanda perché non sia ancora tornato in albergo.
 - Non posso perché sono all’aeroporto. Sì, sto per partire (…) - risponde Nick.
- Ti ho detto di tornare subito! -  intima Bianca.
Alla perentoria richiesta Nick non trova di meglio che simulare, dall’interno della sua cabina telefonica, dei rumori.
- Non ti sento,  ci sono i motori in moto… Non ti sento stanno per decollare…ciao - .
Così tronca la telefonata, esce in gran fretta dalla cabina e si imbatte in Bianca, quasi travolgendola: l’effetto comico è garantito.
 
“Dovresti essere contento che posso fare un lavoro senza muovermi da casa. Non lo mandiamo in uno di quegli asili nido paurosi e faccio un bel po’ di soldi”. Così Lois Kaiser  (Jennifer Jason Leigh), giovane moglie e madre, difende il suo lavoro a domicilio di fronte alle rimostranze del marito, l’operaio Jerry  (Chris Penn), insofferente di sentirla urlare al telefono gemiti di piacere e orgasmi simulati. Il film è America oggi (Short Cuts, Usa 1993), pessimistica commedia umana di fine millennio diretta da Robert Altman e ispirata al minimalismo di Raymond Carver. La sequenza a cui si è fatto riferimento mette in scena con ironia e cinismo il “dietro le quinte” di un “telefono erotico”. Lois trova modo di conciliare questo lavoro con il suo ruolo di casalinga: le provocanti conversazioni con ignoti paganti si svolgono all’interno della routine domestica. Tra una telefonata e l’altra la vediamo fare le pulizie, sfogliare una rivista o cambiare i pannolini al figlioletto. Nel mettere in scena uno dei nuovi “lavori a distanza” Altman rivela la banalità della provocazione sessuale. Svelata la menzogna,  il “telefono erotico” diventa una delle tante possibili forme di telelavoro, apparentemente non coinvolgente per chi lo svolge e neanche troppo faticoso.
 
“Al telefono puoi essere chiunque. Puoi inventarti qualsiasi cosa”: è una delle massime a cui è improntato il lavoro di Seth Davis (Giovanni Ribisi), protagonista del film 1 km da Wall Street (Boiler Room, Usa 2000) diretto dall’allora ventisettenne Ben Younger.  La pellicola racconta la vicenda di un giovane rampante di fine millennio, un ragazzo di buona famiglia (il padre è giudice federale), che, dopo aver abbandonato gli studi e gestito una bisca clandestina nel proprio appartamento, entra alla J.T. Marlin di New York, una società di brokeraggio esterna a Wall Street. E’ assunto in prova come praticante per un lavoro che promette fortuna  in poco tempo ( “Se ci siete tagliati e imparerete bene, nel giro di tre anni avrete il vostro primo milione di dollari”). La missione: vendere aria fritta, cioè azioni di società inesistenti. Il mestiere si svolge interamente al telefono (“un buon broker fa anche più di 700 telefonate al giorno”) e si basa sulla capacità di cogliere indecisioni, dubbi, perplessità nella voce del potenziale cliente attraverso un ascolto attento, per poi convincerlo a comprare usando un tono di voce ora suadente ora deciso nello spiegare i propri argomenti. Richiede una buona abilità dialettica e psicologica nonché un’ assoluta mancanza di scrupoli: non vedere il faccia il proprio interlocutore dà più sicurezza, conferma il capo di Seth. L’assenza fisica di chi subisce il danno non mette limiti all’uso spregiudicato della menzogna consentito dal telefono.
“Non vedevo mai i miei clienti e gli facevo fare cose che non avevano mai chiesto”. In un lungo flash back Seth racconta di un apprendistato al cinismo da lui brillantemente superato e di una carriera rapidamente in ascesa. Un ufficio brulicante di colletti bianchi attaccati compulsivamente al telefono, un universo autoreferenziale anche al di fuori del lavoro, fondato sulla motivazione al successo e nel quale paradossalmente convivono spirito di corpo e reciproca concorrenza, fanno da sfondo alla rapida ascesa del giovane venditore senza scrupoli. Solo nel finale (dopo essere stato intercettato) giungono alla confessione e alla collaborazione con la polizia federale. A tradirlo è il mezzo che prima gli aveva consentito l’impunità.
 
Prospettive assai meno allettanti motivano il lavoro al telefono di una ragazza italiana del nuovo millennio. Marta (Isabella Ragonese), protagonista di Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (Italia 2007), è una giovane neolaureata di belle ambizioni intellettuali; approda in un call center dove, per un salario miserabile (400 euro al mese), deve procurare appuntamenti per venditori a domicilio di un inutile elettrodomestico.
Marta si impegna con intelligenza e profitto. Per conquistare clienti deve aggirare la loro buona fede, millantando una  familiarità  fasulla, costruita navigando rapidamente su Internet mentre conversa con loro al telefono. Il successo sul lavoro (i tanti clienti conquistati le valgono la scalata nella top ten del call center, nel quale le ragazze sono messe in concorrenza fra di loro) non le impedisce di dimenticare su che cosa è fondato. Quando dall’altra capo dell’apparecchio sente l’affermazione “Voi siete degli imbroglioni che approfittate delle persone deboli e credulone”, Marta incassa e tace. Il film, dopo aver messo in scena l’abilità nell’architettare menzogne al telefono, racconta anche l’amarezza nel prendere coscienza di un cinismo diffuso, dal quale si è stati contaminati.