Da Matilde Serao, L’impero della nevrosi e La dannazione umana, in «Il Mattino», 12-13 aprile e 10-11 novembre 1892

 Due articoli contro il telefono


Dalle pagine de «Il Mattino» di Napoli Matilde Serao non risparmia strali polemici nei confronti del telefono. A pochi giorni di distanza dall’approvazione in Parlamento  del disegno di legge sulla regolamentazione del settore telefonico in Italia (7 aprile 1882), descrive le centraliniste come una sorta di «martiri del lavoro moderno», vittime delle nevrosi provocate dal continuo squillare «del fatal campanello», dal dover stare in piedi per ore, oltre che dal funzionamento difettoso del servizio telefonico che spesso spinge l’utente a lamentarsi, se non addirittura a inveire contro le incolpevoli «signorine». Concetto ribadito in un successivo articolo, una vera e propria invettiva contro l’invenzione del telefono, responsabile di aver creato grandi aspettative e di aver provocato frustrazioni ancora maggiori a causa del cattivo funzionamento.



L’impero della nevrosi
L’incarico d'impiegata al telefono non richiede né molta intelligenza né molti studi: richiede della sveltezza e della memoria, intellettualmente: dal punto di vista materiale e morale richiede tale una forza di attenzione, tale una resistenza all’urto nervoso, tale una serenità invincibile, tale una pazienza che io non esito a dichiarare quelle povere ragazze altrettante eroine, altrettante martiri del lavoro moderno. Queste vittime del progresso hanno un nemico inflessibile, crudele, implacabile: il campanello. Esse vivono in un continuo squillare, di ogni minuto primo, di ogni minuto secondo: esse hanno una soneria che misura tutti i momenti del loro lavoro, che interrompe ogni loro pensiero. che spezza ogni loro discorso. Appena hanno chiuso la comunicazione, appena hanno respirato, subito lo stridio ricomincia: il campanello è lento, è a scatti, è violento, è lungo, assume tutte le forme dello squillo ma squilla sempre. Vi sono giornate, il lunedì, per esempio, in cui queste  infelicissime ragazze perdono la testa, a furia di essere chiamate e s’imbrogliano, e sbagliano le comunicazioni, e gli abbonati sono furiosi, e il campanello stride sempre più, nemico che nulla arriverà a vincere, mai. lo credo, invero, che come la misera cucitrice di Thomas Hood cuciva la sua camicia anche nel sogno. Io credo che quelle telefoniste odano squillare il fatal campanello anche nella notte, quando dormono. Come un incubo, come un vampiro: io credo che esse lo udranno, poverette, anche nella tomba, quando saranno morte! Chi libererà queste fanciulle dalla nevrosi? Udite bene la loro voce, quando vi rispondono, al telefono. Essa è alterata: è una voce d’impazienza. Spesso, questa voce è irritata. Hanno sempre fretta, queste fanciulle. Sembrano esseri perseguitati da una profonda e segreta preoccupazione, che ogni tanto scoppia. Veramente, il lavoro che fanno è assolutamente contrario alla igiene dei nervi femminili, è un lavoro che le fa arrivare a uno stato morboso di eccitamento e che dà luogo a miserande depressioni. Il lavoro delle donne ai telegrafi è pesante, è soffocante, è monotono, è cretinizzante: quello che esse fanno ai telefoni è la via a tutte le infermità dei centri nervosi, è il cammino certo a tutti quei paurosi disturbi che avvelenano ed abbreviano la esistenza femminile. Sei, sette, otto ore al giorno passate a udir suonare mille volte dei campanelli, darebbero la nevrosi alla più flemmatica creatura olandese: una fanciulla meridionale non può resistervi molto, o si ammala, o deve cambiar lavoro. Talvolta non si  ammalano, ma languiscono: la loro salute si fa cagionevole, La loro beltà si dilegua, le loro forze scemano. I crescenti turbamenti trasformano anche il loro carattere: e queste povere figliuole non sanno più né amare né vivere. E dappertutto, in Francia, in Italia, è un insorgere contro queste impiegate di telefoni, perché non rispondono subito, perché sbagliano spesso, perché sono sempre irritate, perché pare che si burlino degli abbonati [...]. Liberatele: mandatele agli asili d’infanzia, alle scuole, ai magazzini, agli ospedali, dovunque il lavoro delle donne può essere faticoso, ma non è morboso, può essere lungo, ma non  è mortale. Liberatele: non fatene delle donne stranamente nevrotiche, col sangue impoverito e con la faccia scialba, disgustate di ogni dolce e umile gioia umana. Liberatele, anche se dovessero ritrovare nella loro casa la miseria.