Negli ultimi decenni del XIX secolo, tra i letterati che hanno lasciato traccia del telefono nei loro scritti, chi solo per un cenno, chi dedicandovi pagine o articoli specifici, non è dato ritrovare un atteggiamento univoco. Lo scapigliato Carlo Dossi include, in una breve nota redatta nel 1878, la neonata invenzione tra le “bizzarrie”, immaginando che con essa i deputati «faranno il Parlamento da casa». Nel libro Cuore (1886) di Edmondo De Amicis i fasci di fili aerei segnano la modernità del paesaggio urbano di una grande città d’oltreoceano, Rosario, in Argentina. Per il positivista Paolo Mantegazza le allora nuove tecnologie delle comunicazioni, fra cui il telefono, sarebbero indubbia garanzia di un futuro di pace per l’intera umanità.
Matilde Serao, utente del servizio telefonico in qualità di direttrice di un quotidiano, «Il Mattino» di Napoli, ne scrive con esasperazione a causa del mal funzionamento.Le sue critiche sono rivolte anche alle modalità di un nuovo lavoro, quello delle centraliniste, costrette a un impegno massacrante ed esposte alle vituperie degli utenti.
Nel nuovo secolo una miscela di sentimenti contrastanti (diffidenza, sospetto, ma anche attrazione) ispira una poesia di Marino Moretti dedicata a una conversazione amorosa al telefono. Gabriele D’Annunzio non esita da parte sua a esplicitare la propria infatuazione per le meraviglie della telefonia, che celebra in alcuni versi del poema Maia. Ma l’apparato tecnologico di quella “meraviglia” è, nella realtà, ancora assai fragile: a più di trent’anni di distanza dal suo ingresso in Italia lo scrittore satirico romano Oronzo E. Marginati si far interprete del sarcasmo che ancora suscita l’inaffidabilità dello strumento.