Nelle vite degli altri

Strumento di indagine, spionaggio, ricatto, l’intercettazione telefonica è elemento narrativo in tanti film polizieschi, soprattutto in quei thriller made in Usa con implicazioni politiche, fioriti dopo lo scandalo Watergate (1972-1974), come per esempio I tre giorni del condor (Three Days of the Condor, Sidney Pollack, Usa 1975).
Nella maggior parte delle pellicole l’intercettazione può rappresentare, a seconda delle circostanze, una positiva facilitazione investigativa o una negativa modalità per tenere una  preda nella rete. Attraverso l’intercettazione, e a seconda di chi la mette in pratica, si materializza nel cinema  l’onnipotenza del controllo degli apparati statali come la pericolosità di un complotto eversivo: l’intercettatore è in genere una figura secondaria, un mero esecutore tecnico, l’anonimo e irresponsabile elemento umano al servizio della legge o, più spesso, di attività illegali.


Solo in alcuni film, tutti  molto apprezzati dalla critica, l’intercettazione è elemento costitutivo del soggetto, funzionale a mettere in primo piano la figura di colui che spia ascoltando: l’intercettore diventa, in questi casi, il personaggio principale di una trama che si alimenta dei dubbi esistenziali ed etici che lo agitano in conseguenza del mestiere che svolge e del ruolo che esercita.
 
Harry Caul (Gene Hackman), protagonista de La conversazione (The Conversation, Usa 1974) di Francis Ford Coppola, Palma d’oro a Cannes nel 1974, sembra incarnare l’ideal tipo del perfetto spione tecnologico. Specialista in vari generi di intercettazione ambientale (indimenticabile la sua esibizione di bravura a margine di un convegno di intercettatori telefonici), ha messo a punto la sua vita al pari dei suoi strumenti di lavoro, improntandola alla massima autosufficienza, a una prudente distanza da ogni coinvolgimento affettivo, al totale anonimato: per esempio non dice a nessuno di avere un telefono, non sopporta che la sua padrona di casa faccia un duplicato delle sue chiavi, dissemina di congegni d’allarme il suo appartamento.
Le certezze su cui ha costruito il successo professionale però vacillano quando decide di abbandonare il ruolo di mero esecutore di trame altrui. Assoldato per spiare una coppia di amanti, una frase gli fa venire il dubbio che qualcuno voglia commettere un omicidio. Per prevenire la tragedia cerca di andare più a fondo. Scopre di essere involontario strumento di una diabolica trappola criminale ed entra in paranoia quando viene preso dal dubbio di essere lui stesso spiato.
 
 In Le vite degli altri (Das Leben der Anderei, Florian Henckel von Donnersmarck, Germania 2006), premio Oscar nel 2007 come miglior film straniero, l’intercettazione, telefonica e ambientale, esemplifica una delle caratteristiche più ignobili dello stato totalitario, che si impadronisce della vita delle persone, privandola della dimensione più intima e privata.
Siamo a Berlino est nel 1984. Il ministro della Cultura, invaghitosi, senza successo, dell’attrice di teatro Christa-Maria (Martina Gedeck), ordina alla Stasi, la polizia segreta, di mettere sotto controllo l’appartamento in cui vivono la donna e il suo compagno, Georg Dreyman (Sebastian Khoch), un drammaturgo di successo, sospetto di simpatie filo occidentali. La vita dei due è spiata e scrupolosamente annotata minuto per minuto: il compito di tenerli sotto controllo è affidato a Gerd Wielser (Ulrich Muhe), un grigio e metodico funzionario di polizia che incarna alla perfezione l’orecchio dello Stato sempre in ascolto.  Ma poi accade che proprio questo solerte esecutore si lasci coinvolgere nel dramma in cui stanno precipitando le vite dei suoi indagati. Ascoltando di nascosto lo svolgersi della loro storia, finisce per diventarne egli stesso partecipe. Per proteggerli compie una scelta di campo, a scapito della fedeltà ideologica e della carriera.
 
In entrambi i film l’intercettazione è paradossalmente la chiave d’accesso a una relazione con il prossimo in netta antitesi con le competenze professionali richieste a chi, di mestiere, viola, impunemente e di nascosto, il privato altrui. In entrambi  accade qualcosa che obbliga i protagonisti a una decisiva deviazione di percorso, a una resa dei conti con il passato e con il mestiere di spioni, di Stato o a pagamento: gli intercettatori prendono atto che le voci e le parole  rubate alla privacy appartengono a persone in carne e ossa, e questo mette a prova il concetto di “irresponsabilità” nei confronti delle vittime su cui si fonda la loro professione. Nel film tedesco il protagonista riscatta il passato con anonimo altruismo. Nel film di Coppola l’intercettatore, a sua volta intercettato, sconta sulla sua pelle la violazione del privato; incarna egli stesso il privato messo a nudo, come suggerisce, nel finale, l’allegoria del suo appartamento da lui stesso svuotato, smontato pezzo a pezzo, ridotto allo stato naturale nella vana ricerca di un microfono nascosto chissà dove.
 
Intercettatore non per mestiere ma per insana vocazione è il sessantacinquenne giudice in pensione (Francois Trintignant), uno dei protagonisti di Film Rosso (Trois coleurs; Rouge, Francia/Svizzera/Polonia 1994) di Krzysztof Kiéslowski. All’inizio del film, in una virtuosa soggettiva, è rappresentata la rete telefonica che si dipana in un caleidoscopio di fili sotterranei. Quella rete, che connette persone e abitazioni, è metafora delle diverse relazioni che intercorrono fra gli individui.  
L’ex giudice spia i suoi vicini di casa, ascoltandone anche le conversazioni più intime, grazie alle intercettazioni telefoniche che pratica abitualmente e per puro gusto personale; l’altra protagonista del film, la giovane modella Velentine (Irène Jacob), si prodiga invece attivamente per aiutare chi le sta vicino. Le due figure, che il caso fa incontrare, incarnano un modo assai differente di occuparsi degli altri. La bella Valentie pensa che l’altruismo sia un dovere, come richiedono il comandamento religioso della condivisione e quello laico della fraternità.  Il giudice, invece, convinto che non ci si possa far carico delle vite altrui, si limita a osservarle e spiarle. Esercita un controllo privo di coinvolgimenti.
Anche se la sua azione non ha finalità concrete e pur non essendo egli un intercettatore professionista, l’ex giudice si comporta come se lo fosse: la sua è una consapevole dichiarazione  di “irresponsabilità” nei confronti del prossimo.