Squilli di paura

“Thriller di paura telefonica” potrebbe essere a tutti gli effetti la dicitura di un sottogenere cinematografico caratterizzato dalla presenza del telefono come veicolo di oscure minacce e profezie di morte. In una sequenza tipica del thriller telefonico l’enigmatico squillo dell’apparecchio catalizza l’attenzione, sospende l’azione, irrompe in una quieta normalità per trasformarla in tragedia, segna l’avvio del dipanarsi di eventi angoscianti.
Rispondere o non rispondere? Lo squillo del telefono è diretto allo spettatore!


 

Mario Bava, regista un tempo ritenuto di serie B e più recentemente rivalutato dai cultori dell’ horror, intitola Il telefono il suo contributo al film I tre volti della paura (Black Sabbath , Italia/ Francia 1963). L’episodio inizia con l’inquadratura di un telefono che squilla. Un lento movimento della macchina da presa esplora l’appartamento vuoto, mostrandone nella penombra l’arredo borghese. La padrona di casa (Michelle Mercier), appena rientrata, scoprirà  ben presto di essere in balia dell’apparecchio. Prima, quando solleva la cornetta e nessuno risponde; subito dopo, quando al suo “Chi parla?” sente rispondere “Lo saprai un attimo primo di morire”; infine, quando, dalle parole di chi sta all’altro capo del filo, capisce di essere non solo minacciata ma anche sorvegliata.

Il telefono (che la macchina da presa mette ripetutamente al centro della scena) da oggetto domestico si trasforma in strumento di una macchinazione mortale. La vittima predestinata

lo fronteggia terrorizzata, quasi quel marchingegno avesse anche gli occhi. Lo sbatte lontano da sé, sperando inutilmente di allontanare così la minaccia, che si personifica invece nella seconda parte del film, in cui l’oggetto dominante diventa un luccicante coltello da cucina. Quando il sangue ha finito di scorrere, l’inquadratura finale è nuovamente riservata al telefono.

 

“Sei andata a controllare i bambini?” è l’ossessivo messaggio telefonico che perseguita Jill Jhonson (Carrol Kane), giovane baby-sitter nel film Quando chiama uno sconosciuto (When a Stranger Calls, Usa 1979) di Fred Walton. La scena si svolge al piano terra di una lussuosa dimora borghese mentre i bambini dormono al piano di sopra. Intorno al telefono e alla ossessiva ripetizione della domanda “Sei andata a controllare i bambini?” è costruita tutta la suspense della lunga sequenza iniziale (venti minuti), prima della rivelazione dell’atrocità nel frattempo compiuta da un maniaco assassino (Tony Beckley), che telefonava proprio dal secondo piano di quella casa e che viene catturato.

Il film prosegue spostando la scena in avanti di sette anni, quando l’omicida riesce a fuggire dal manicomio in cui era stato rinchiuso. Nella parte finale l’uomo ritorna a perseguitare l’ex baby-sitter, nel frattempo felicemente sposata e madre di due bambini. Il telefono è nuovamente in scena: attraverso di esso il maniaco annuncia alla donna il suo ritorno, riproponendo l’ossessiva domanda. La carneficina però questa volta è evitata grazie all’intervento di un detective privato (Charles Durning), che si accorge che l’apparecchio della casa di Jill è stato manomesso. 

In un recente remake, Chiamata da uno sconosciuto (When a Stranger Calls, Simon West, Usa 2006) la sceneggiatura ha aggiornato il thriller, ambientandolo nell’era delle nuove tecnologie, dando evidenza a cordless e telefoni cellulari.

 

Una misteriosa frase al telefono “Ormai l’hai vista!”, associata a un’altrettanto misteriosa videocassetta che contiene l’ annuncio “Morirai fra sette giorni!”, compone la miscela di terrore da cui prende l’avvio Ringu (Giappone 1998) di Hideo Nakata, psycho horror tratto dal romanzo Ring di Koji Suzuki, di grande successo in Giappone e nel sudest asiatico, e ispiratore a suo volta di fortunato remake ambientato a Seattle (The Ring, Gore Verbinski, Usa 2002).

Emblematica è la prima sequenza del film (della durata di circa sette minuti) nella quale due compagne di scuola, rimaste sole in casa, discutono sulla morte di un ragazzino, verificatasi a seguito di quegli annunci. Un ilare scetticismo scaccia l’iniziale preoccupazione di una delle due, che racconta di aver visto anch’essa, alcune sere prima, in compagnia di amici, uno strano video, a cui era seguita una misteriosa telefonata. Ridendo e scherzando le ragazze esorcizzano i cattivi pensieri. A interrompere bruscamente l’euforia è però sufficiente uno squillo di telefono. Ne seguono altri venti, in un raggelante silenzio di fondo. Le ragazze non osano avvicinarsi all’apparecchio. Quando finalmente la più coraggiosa afferra la cornetta la vediamo sorridere, perché chi ha chiamato è solo la mamma dell’amica. Tutto bene, apparentemente. Quegli squilli non sono, come ci si aspetterebbe, annunci di morte. Ugualmente segnano però uno scarto nel pathos narrativo, e da qui in avanti la tensione è crescente.

 

Con l’avvento della telefonia mobile il “thriller di paura telefonica” guadagna in ubiquità. Tra i primi ad aggiornare l’idea, veicolando il terrore attraverso il cellulare, strumento di socialità privilegiato da giovani e adolescenti, è Miike Takashi, prolifico regista giapponese ammirato da Quentin Tarantino, specialista nella rappresentazione di una violenza priva di filtri, con effetti splatter.

In The Call - Non rispondere (Chakushin ari - One Missed Call, Giappone 2003) Miike Takashi racconta la vicenda di alcuni ragazzi che ricevono, uno dopo l’altro, sul loro cellulare dei messaggi inquietanti. Ascoltano le ultime parole pronunciate da una persona che sta per morire, ma ciò che è ancor più terrorizzante è che la voce al telefono è la stessa di chi  riceve la telefonata. In primo piano, dopo i titoli di testa,  ci sono quattro telefonini depositati sul bancone di un ristorante. Subito dopo, nel bagno femminile, dove si trovano la protagonista Yumi (Con Kou Shibasaki) e la sua amica Yoko, la suoneria musicale del cellulare di quest’ultima dà l’avvio a un carosello di morti annunciate. La loro macabra rappresentazione si intreccia da qui in avanti con varie vibrazioni e musichette che annunciano altrettante letali profezie. Display si illuminano minacciosi e sulle tastiere si compongono automaticamente i numeri delle prossime vittime. L’impotenza delle vittime predestinate, di fronte al telefonino veicolo di morte, sembra totale. Non serve  a nulla scagliare l’oggetto con rabbia in un acquario, anche se la scena ha un suo effetto cromatico.

Il film di Takashi mostra varie incongruenze nell’intreccio ed è abbastanza scontato nel finale: come in tanti recenti film del genere horror la genesi dei delitti ha a che fare con traumi infantili e genitori snaturati.  La sua originalità consiste però nel rovesciamento della funzione del cellulare. Da strumento utilizzato dai giovani per moltiplicare le relazioni amicali, diventa veicolo di morte: sono proprio i numeri di telefono che i ragazzi si scambiano tra di loro ad alimentare la catena del terrore. Alla stessa considerazione si ispira il remake occidentale, Chiamata senza risposta (One Missed Call, Usa 2008) di Eric Valete.