In trincea

La prima guerra mondiale è stata rappresentata sul grande schermo da varie angolazioni e sotto differenti punti di vista: ha fatto da sfondo a melodrammi sentimentali, è stata talvolta occasione per celebrare il gesto eroico di coloro che si immolarono per la patria, è diventata viceversa occasione di denuncia antimilitarista nelle numerose pellicole che, a partire dall’indimenticabile All'ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, Usa 1930) di Lewis Milestone, hanno sottolineato la drammaticità di un massacro, che provocò, sui vari fronti, più di cinque milioni di morti. In alcuni film d’autore, e in particolare in sequenze di grande tensione, il telefono da campo è un topos narrativo che demarca la distanza, spaziale ma non solo, tra chi impartisce gli ordini e chi li esegue, tra comandanti ambiziosi e irresponsabili, al sicuro nei loro quartieri generali, e soldati in prima linea mandati inutilmente al massacro. Rispetto all’ordine per telefono, percepito come impersonale, si invoca un più burocratico ordine scritto, che però non arriva, o non arriva in tempo.


 
In Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick (Paths of Glory, Usa 1957) un concitato dialogo attraverso il telefono da campo è al centro del drammatico episodio alla base del successivo svolgimento del racconto. E’ in corso lo sconsiderato attacco francese a un inespugnabile baluardo tedesco denominato il Formicaio. Stizzito perché le sue truppe arretrano, il generale francese Mireau (George Macready) ordina all’artiglieria di aprire il fuoco sui soldati in ritirata. L’ordine viene trasmesso dal quartier generale per telefono. Chi lo riceve, ovvero il capitano che comanda la prima batteria di cannoni, pensa prima di tutto che si tratti di un errore. Dal generale arriva però immediata l’assurda conferma e a questo punto il capitano fa rispondere che non procederà se non in seguito a ordine scritto, firmato dallo stesso generale. Tutto il dialogo si svolge fin qui per interposta persona da entrambi i lati. Ma, di fronte alla resistenza del subordinato, Mireau  afferra lui stesso  la cornetta del telefono per minacciare direttamente il capitano: quando questi ribadisce il rifiuto di sparare sui suoi commilitoni, gli intima di passare le consegne e di presentarsi in stato d’arresto al quartier generale. L’ordine verrà eseguito e il coraggioso capitano finirà di fronte alla corte marziale.
 
L’ epilogo de Gli Anni Spezzati (Gallipoli, Usa 1991) di Peter Weir, film che racconta le vicende di due giovani volontari australiani, Archy Hamilton (Mark Lee) e Frank Dunne (Mel Gibson), campioni dilettanti di corsa, si ispira alla lunga, eroica e inutile battaglia, costata migliaia di morti, combattuta, tra il febbraio 1915 e il gennaio 1916, dall’Anzac (Australian New Zealand Army Corps) contro l’esercito turco per la conquista  della penisola di Gallipoli e pagata con decine di migliaia di morti. Nell’ultima indimenticabile sequenza, costruita con un veloce montaggio alternato, una telefonata tra il colonnello Robinson (John Morris), che dalla sua tenda di comando dirige le operazioni, e il maggiore  Burton (Bill Hunter), schierato sulla linea del fuoco accanto ai suoi giovani soldati, precede lo sconsiderato assalto alle trincee nemiche. Il primissimo piano sulla cornetta del telefono da campo introduce il serrato dialogo, da un capo all’altro del filo, dei due uomini, anch’essi inquadrati alternativamente in primissimo piano: il primo determinato a procedere con un ordine che l’altro percepisce come un’ inutile destinazione al macello. Mentre le comunicazioni telefoniche si interrompono, l’estremo tentativo del maggiore Burton di salvare i suoi uomini è affidato a Frank Dunne, inviato come staffetta (“Vai, corri come il vento”) al superiore più alto in grado (per  scavalcare il colonnello) nella speranza di ottenere un ordine scritto di rinvio dell’azione. Ma il via all’attacco arriva nuovamente per telefono, dopo una breve, illusoria sospensione dovuta a un guasto sulla linea prontamente riparato. Il portaordini corre a perdifiato, ma arriverà troppo tardi.
 
Il dramma della grande guerra fa da incipit e da sfondo a tutto il racconto nel film Una lunga domenica di passioni (Un long dimanche de fiançailles) di Jean-Pierre Jeunet (Francia 2004). La prima scena ci riporta nel gennaio del 1917, sul fronte della Somme, nella trincea denominata  Bingo crepuscolo, dove cinque fanti sono stati condannati a morte per autolesionismo. Le immagini, di forte impatto visivo (allo spettatore sembra di essere trascinato anch’esso nella fossa della trincea), si alternano con essenziali quanto efficacissime “carte d’identità” dei reprobi, personaggi tra loro diversissimi, accomunati nella tragedia della guerra. Il montaggio passa da panoramiche a dettagli, la fotografia esalta la policromia del racconto (tratto distintivo di tutto il film); una voce femminile fuori campo, solo apparentemente distaccata, descrive il tragico evolversi degli avvenimenti. Procedendo a fatica nell’acqua e nel fango della trincea sotto una pioggia battente, i condannati  devono abbassare la testa per evitare il filo del telefono da campo. - Attenti a qual filo! - avverte il sergente che li ha in consegna. -  Il filo del telefono -  racconta la voce fuori campo - è il solo legame con il mondo dei vivi. E’ solo attraverso quel filo teso che potrebbe arrivare la grazia del presidente Poincaré… -  Che naturalmente non arriverà.
Anche in questo film dal telefono non arriva niente di buono per i soldati al fronte. L’ “attenti al filo!” suona come demarcazione di distanze incolmabili: tra i fanti, in una disperata lotta per la sopravvivenza, e gli alti comandi.