Prima della fine

Nei Paesi in cui è in vigore la pena di morte lo squillo di  un telefono è il tenue filo di speranza a cui, fino all’ultimo, è appesa la vita di un condannato. Da una telefonata può infatti arrivare, anche un attimo prima dell’esecuzione, la concessione della grazia. 

L’alibi era perfetto (Beyond a Reasonable Doubt, Usa 1956), ultimo film americano di Fritz Lang (ispiratore del remake Un alibi perfetto, Peter Hyams, Usa 2009), è un avvincente thriller che prende le mosse da una discussione sulla legittimità o meno della pena di morte. L’editore Austin Spencer (Sidney Blakmer), che ne è un fiero oppositore, convince lo scrittore Tom Garrett (Joan Fontaine), fidanzato della figlia Susan (Dana Andrews), a far credere di essere autore dell’omicidio di una prostituta, inventando le prove a proprio carico.


Come prevedibile Garret viene arrestato, processato e condannato a morte, ma quando è l’ora di svelare l’inganno, Spencer muore per un incidente e le prove a sua discolpa vanno distrutte. Lo scrittore, benché innocente, è così tragicamente destinato a diventare vittima del meccanismo da lui stesso ideato. Poco prima della fine però la verità sembra venire a galla e la salvezza è ormai assicurata. Ma ecco un nuovo colpo di scena: Susan, dopo essersi battuta allo stremo per salvare l’ex fidanzato, scopre che l’assassino è proprio lui.
La telefonata con cui si conclude il film non arresta la macchina della morte: accade esattamente il contrario. E’ la stessa Susan a effettuare la decisiva chiamata, che blocca la mano del governatore, nell’atto di sottoscrivere la concessione della grazia.
 
Più convenzionale, a conclusione di una narrazione non meno ricca di suspense, è l’ultima telefonata in Fino a prova contraria (True Crime, Usa 1999), ventunesimo lungometraggio di Clint Eastwood nelle vesti di produttore e regista. Il film racconta di un giovane nero, Frank Beachum (Isaiah Washington), che, condannato per l'omicidio di una commessa bianca, dopo essere stato rinchiuso per sei anni nella cella della morte del carcere di San Quentin in California, sta per essere giustiziato con una triplice iniezione letale. Steve Everett (Clint Eastwood), un cronista di nera a fine carriera, prototipo dell’antieroe di tanti film di Eastwood (è un ex alcolizzato, un marito infedele, un padre assente e un puttaniere), si assume il compito di tentare di impedire l’esecuzione. Gli restano però solo dodici ore di tempo per trovare le prove dell’innocenza del condannato.
Spunti di riflessione molto seri sul latente razzismo della maggioranza silenziosa, sul sistema giudiziario americano, sulla macchina disumana della pena di morte ruotano e si innestano su una trama da thriller a orologeria. La tensione raggiunge il culmine nella penultima sequenza costruita con montaggio alternato. Mancano pochissimi minuti alla mezzanotte, ora prevista per l’esecuzione, e il giornalista in auto cerca disperatamente di raggiungere l’abitazione del governatore, avendo finalmente le prove dell’innocenza del condannato. Lo vediamo avventurosamente raggiungere l’obiettivo mentre nel braccio della morte si compiono le ultime operazioni per l’esecuzione. Quando già gli aghi sono stati infilati nelle braccia del giovane e parte del liquido letale è stato iniettato nelle sue vene, la macchina da presa si ferma su quattro telefoni allineati su una parete. Uno di essi squilla! Ma non sarà troppo tardi? Con un sapiente dosaggio dei tempi del racconto la soluzione arriva nella successiva e ultima scena.
 
Nella realtà non sono frequenti le telefonate che salvano la vita nell’ultimo istante possibile e così anche nelle tante pellicole più impegnate a denunciare l’assurdità e la barbarie della pena di morte. In Decalogo 5. Non uccidere (Dekalog, piec’, Krzysztof Kiéslowski, Polonia 1989), Dead Man Walking (Tim Robbins, Usa 1995), L'ultimo appello (The Chamber, James Foley, Usa 1996), Il miglio verde (The Green Mile, Frank Darabont, Usa 1999), Dancer in the Dark (Lars von Trier, Danimarca 2000), The Life of David Gale (Alan Parker, Usa-Gb-Germ. 2003) il telefono nella camera della morte non svolge alcun ruolo significativo e non è neppure presente come elemento della scena. Nessuno di quei drammatici racconti ha infatti un lieto fine. Non compare sullo schermo nessun telefono salvavita, perché la trama non prevede speranza.