La trasmissione

Per la trasmissione del segnale elettrico, due erano allora i problemi considerati prioritari: 1. l’amplificazione del segnale, che perdeva potenza a mano a mano che la distanza percorsa aumentava; 2. il fenomeno delle interferenze dovute all’induzione magnetica: ogni filo all’interno del quale passa una corrente variabile (quale quella del filo del telegrafo o telefono) genera un campo magnetico, che a sua volta interferisce con i campi elettrici presenti in prossimità. Questi ultimi, di conseguenza, variano di intensità, dando luogo a distorsioni del segnale trasportato.
La comunicazione perdeva dunque in qualità, e non erano possibili trasmissioni del segnale oltre i 50 chilometri se non di notte, quando le linee telegrafiche non erano in funzione.


 
I trasformatori

La trasmissione a lungo raggio fu resa possibile grazie all’ideazione e alla realizzazione di elementi di fondamentale importanza, quali il trasformatore, concepito in una forma efficace da Lucien Gaulard, che presentò i propri “generatori secondari” (questo era il nome scelto a quell’epoca per i trasformatori) alla Sezione Internazionale di Elettricità dell’Esposizione di Torino del settembre
1884. Di lì a pochi mesi seguì un saggio fondamentale di Galileo Ferraris, nel quale si gettavano le basi per la teoria dei trasformatori, la cui prima ricaduta importante fu quella di consentire la trasmissione a distanza dell’energia elettrica. Le prime applicazioni commerciali del trasformatore non furono però dovute né a Gaulard né a Ferraris, ma ad altri tecnici, che meglio seppero sfruttare le possibilità economiche del nuovo componente; tra loro si annoverano Nikola Tesla e Károly
Zipernowsky (l’apparecchio di quest’ultimo fu commercializzato dall’ungherese Ganz).
 
 Bobine e "pupinizzazione"

La coesistenza dei fili telegrafici e telefonici si realizzò grazie all’utilizzo delle cosiddette “bobine di arresto” (chokes), ideate dal belga François van Rysselberghe. Già nel 1882, questi intuì che le interferenze tra le linee telegrafiche e quelle telefoniche erano sostanzialmente dovute ai rapidi sbalzi della corrente negli impulsi telegrafici. Collegando tali bobine al circuito telegrafico, van
Rysselberghe ridusse le interferenze, e rese possibile un successivo accoppiamento tra i fili telegrafici e quelli telefonici. Ciò, in definitiva, consentì lo sfruttamento da parte della rete telefonica delle infrastrutture territoriali già installate per il telegrafo.
Altro importante “ritrovato” fu quello di Michael Pupin (1901), fisico di origine serba, che con il suo sistema di bobine a intervalli regolari permise la concretizzazione dei collegamenti a lunghissimo raggio.
Nei primi anni della comunicazione via filo, problema di notevole entità era quello della scelta dei parametri di rete per ciò che concerne i cavi conduttori del segnale, in particolare per ciò che riguardava i conduttori interrati. Punto di partenza era la “condizione di Heaviside”, formulata da Oliver Heaviside, fisico inglese, già nel 1887, anche se non applicata sino all’inizio del Novecento. Secondo tale condizione, il rapporto tra resistenza del filo conduttore e dispersione (caduta di
tensione) dello stesso doveva eguagliare quello tra induttanza (lo stesso fenomeno che creava distorsione a causa della vicinanza del filo telegrafico) e capacità (dovuta alla proprietà di due conduttori vicini attraversati da corrente di “trattenere” localmente altre cariche elettriche). Non potendosi variare, per limiti tecnologici, né la resistenza caratteristica dei cavi (determinata dal materiale usato), né la dispersione di linea (dipendente in sostanza dalla lunghezza del collegamento), né la capacità del sistema (specialmente nel caso dei fili interrati), il parametro sul
quale si poteva operare era l’induttanza del collegamento. In sostanza, per aumentare quest’ultima erano poste lungo la linea di trasmissione delle bobine distanziate in funzione della lunghezza d’onda del segnale trasmesso. Tale procedimento fu chiamato “pupinizzazione”, proprio dal suo ideatore Michael Pupin. Metodo analogo per aumentare l’induttanza dei cavi (specie quelli sottomarini) fu quello ideato dal danese Agner Krarup Erlang nel 1902.
 
 
 La valvola termoionica (o il triodo)

Il successivo passo fu portato a termine da Lee De Forest, che nel 1906 inventò il triodo, o valvola termoionica. Nonostante nemmeno il suo stesso inventore avesse dato prova di capirne le reali potenzialità, tale dispositivo si impose come fondamentale anzitutto per lo sviluppo della radio, ma anche per ciò che concerne il telefono, per il suo utilizzo come amplificatore. Il funzionamento di questo componente si basa sulla proprietà di un filamento riscaldato di rilasciare una grande quantità di elettroni (catodo), i quali arrivano a un polo positivo (anodo) passando attraverso un elemento discontinuo, che nella fattispecie conduce un segnale debole (quello telefonico). L’elemento discontinuo, il terzo del triodo, “filtra” il flusso degli elettroni verso l’anodo, imprimendo il segnale sul flusso e producendone così l’amplificazione.
L’ utilizzo della valvola termoionica nella telefonia come amplificatore, particolarmente efficace per rapporto di amplificazione e per l’ottima selettività di sintonia (poteva essere modulata con grande precisione), fu compreso solo a partire dal 1912. Gli amplificatori a valvole fecero fare un enorme salto in avanti, permettendo tra l’altro la realizzazione della prima linea telefonica
transcontinentale, aperta tra New York e San Francisco nel 1915.

Nell'articolo, pubblicato sulla rivista «Telefono poste e telegrafi», n° 2, 1903, è rivendicato...
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