“Acusmatico” è il termine proposto dal compositore e critico cinematografico francese Michel Chion per definire nel cinema un particolare tipo di rapporto fra suono e immagine. Derivato dal greco, significa suono “che si sente senza vedere la fonte da cui proviene”. Radio, apparecchi musicali e telefono sono, seguendo il suo ragionamento, per definizione dei media acusmatici. Nel caso del telefono la sua sorgente ultima (ovvero chi riceve una telefonata) può benissimo essere in campo, ma può viceversa essere tenuta fuori campo quella primaria (chi effettua la telefonata). L’espediente è spesso utilizzato nel cinema per rimarcare gerarchie, conferendo maggior autorevolezza alla sorgente primaria, che, come avviene in molti film di gangster o di mafia, impartisce ordini non discutibili. Non mostrare il volto di chi dà gli ordini, potenzia l’efficacia del messaggio.
Non appartiene al filone gangster Il bell’Antonio di Mauro Bolognini (Italia 1960), tratto dall’omonimo romanzo di Vitaliano Brancati e ambientato a Catania negli anni Cinquanta, ma anche in questo caso l’uso del telefono con voce over stabilisce subalternità. Accade nell’ultima scena del film, quando l’ineffabile Antonio Magnano (Marcello Mastroianni) risponde al telefono, collocato, come allora si usava, nel corridoio della casa paterna. Il telefono è già entrato in scena in alcuni momenti topici, cioè nei dialoghi decisivi per appurare la natura del dramma (l’impotenza sessuale) che ha investito Antonio e di riflesso la sua famiglia. Nella sceneggiatura la conversazione telefonica ha assolto fino a questo punto la funzione di integrare a distanza (confermando i sospetti, rilanciando accuse e sfide) il confronto a viso aperto tra i vari personaggi, adottando soluzioni di regia che hanno sempre messo in scena, con opportuni stacchi tra le inquadrature, tutti i protagonisti delle varie conversazioni telefoniche.
Nell’ultima scena, anzi nell’ultima inquadratura, in campo è invece il solo Antonio, che parla pochissimo e per lo più ascolta. Del suo interlocutore, l’intraprendente cugino, che gli disegna il quadro della sua situazione, attuale e futura, sentiamo solo la voce subdolamente rassicurante. Espliciti i complimenti ad Antonio che finalmente, avendo ingravidato la domestica, ha dato prova della propria virilità, ponendo così le premesse per riconquistare il ruolo di maschio e la rispettabilità; sottintesi i meriti dello stesso cugino, che, ideatore e autore di tutta la salvifica operazione, si accontenterà di essere chiamato a fare il padrino del nascituro.
Con l’orecchio incollato alla cornetta, Antonio ascolta, rafforzando l’immagine di un’impotenza anche psicologica. Il telefono veicola una voce over che lo consegna a una dimensione finale di nullità, mentre la macchina da presa indugia sul suo volto, cogliendone indefinibili sfumature.
L’espediente di usare per uno dei due interlocutori la voce over rafforza l’autorevolezza di colui che non si vede, che monopolizza il dialogo e detta le sue condizioni.
Va controcorrente rispetto al genere, con sofisticata ironia, il film In Bruges (Gran Bretagna/Belgio 2007), una black commedy del regista irlandese Martin Mc Donagh, che racconta di due sicari irlandesi reduci da un assassinio su commissione che ha avuto un imperdonabile effetto collaterale, l’uccisione di un bambino. La coppia mal assortita, composta dal giovane e impulsivo Ray (Colin Farrell) e dal razionale e protettivo Ken (Brendan Gleeson), soggiorna nella città fiamminga su disposizione di un invisibile capo, senza capirne bene le ragioni e in attesa che questi si faccia vivo. La sequenza della prima lunga telefonata (5m e 27 secondi) tra il boss Harry (Ralph Fienness) e Ken, il suo fedele sottoposto, è un irresistibile dialogo dell’assurdo, costruito seguendo apparentemente i canoni del film di genere, ma con uno scarto negli esiti finali. Lo spettatore comincia a fare conoscenza con Harry solo attraverso la sua voce fuori campo: il tono monocorde con cui conduce la conversazione passando dalla commiserazione, alla nostalgica rievocazione, all’indifferenza al momento in cui commissiona a Ken l’omicidio del suo giovane compagno, prelude alla comparsa in scena, più avanti nel racconto, del personaggio, spietato e cinico, quanto ridicolo e pasticcione. Visivamente la sequenza della telefonata è tutta costruita, con primi e primissimi piani, intorno alla figura del corpulento, paziente e sempre più perplesso Ken, che porta a spasso il telefono nella cameretta d’albergo, cercando di assecondare al meglio gli assurdi ragionamenti del suo nevrotico interlocutore.