Sin dalle origini, nei confronti del telefono, le donne hanno assunto ruoli attivi, non solo in quanto operatrici telefoniche ma soprattutto come utilizzatrici sapienti di quel mezzo nella vita quotidiana. E’ grazie alle donne che il telefono ha assunto nella modernità un ruolo centrale nelle relazioni sociali. Dall’avvento del sonoro in poi, innumerevoli sono le pellicole che mettono in scena donne al telefono, intente a scambiarsi confidenze e pettegolezzi, a confessare passioni e gelosie, a intrattenere amanti e spasimanti. Se la commedia sdogana le protagoniste femminili dall’isolamento domestico, all’opposto nei racconti drammatici il telefono può diventare espediente narrativo per sottolineare, proprio dentro le mura domestiche, la solitudine delle donne e la loro subordinazione alla figura maschile.
Esemplari due film coevi: Il terrore corre sul filo (Sorry, Wrong Number, Usa 1948) di Anatole Litvak e La voce umana (Italia 1948) di Roberto Rossellini, entrambi costruiti intorno a una figura femminile sola al telefono, unico ed estremo terminale di contatto con l’esterno.
Sin dai titoli di testa il telefono, con la sua ingombrante e minacciosa ombra sulla parete, è posto al centro della narrazione di Il terrore corre sul filo, un thriller dove i tempi del racconto sono scanditi da brevi sequenze che mostrano centraliniste al lavoro. Lena Stevenson (Barbara Stanwyck), protagonista del film, è la ricca e nevrotica figlia di un magnate dell’industria farmaceutica, sposata con un ex commesso (Burt Lancaster) che, grazie a lei, è diventato vicepresidente nell’industria paterna. Costretta a letto da una lunga malattia, la donna, rimasta sola in casa, apprende da una casuale interferenza telefoniche che sta per compiersi un omicidio. Via via si rende conto di essere lei stessa l’obiettivo del sicario. Il dramma si consuma nel giro di poche ore e l’intera trama la trama si dipana attraverso una serie di telefonate (una quindicina) che passano attraverso l’elegante telefono bianco posto accanto al letto matrimoniale. Le chiamate in uscita (la donna impaurita si rivolge in successione alla polizia, a suo padre, alla segretaria del suo irrintracciabile marito, al suo medico curante) come quelle in arrivo consegnano la protagonista a una condizione di solitudine, che si rivela sempre più angosciante, preludio di un tragico epilogo. Il mondo esterno, percepito attraverso il telefono, diventa sinonimo di estraneità (i festosi rumori provenienti dalla casa padre), irraggiungibilità (il marito che non si fa trovare), minaccia (il disegno criminoso che prende forma proprio intorno alla figura del marito). Nella sequenza finale la mano della donna tenta invano di afferrare ancora una volta il telefono che squilla. A rispondere all’ultima chiamata è però l’assassino. - Avete sbagliato numero - risponde flemmatico. E la macchina da presa inquadra la sua mano guantata che ripone la cornetta.
E’ un lungo monologo al telefono, affidato alla straordinaria bravura recitativa di Anna Magnani, quello messo in scena da Roberto Rossellini in La voce umana, (uno dei due episodi del film L’amore, Italia 1948), che ripropone per lo schermo l’atto unico La voce umana, scritto da Jean Cocteau per la Comédie Française e rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1930. La protagonista è una donna sola che, trasandata, avvolta in uno scialle, distesa o seduta sul suo letto disfatto, affida al telefono inutili illusioni, sconsolate dichiarazioni d’amore e una disperazione senza conforto. Tra lei e l’uomo senza voce e senza volto, l’ex amante che ha deciso di troncare per sempre la loro relazione, si svolge un dialogo impari. Il telefono è lo strumento attraverso il quale si esplicitano e materializzano la disparità e la dipendenza. E’ sempre l’uomo a chiamare (accade tre volte), perché solo lui ha il potere di farlo. Tutte le energie della donna sono dedicate allo struggente tentativo di non spezzare il tenue filo della conversazione dissimulando la sua reale condizione di prostrazione fisica e mentale, nella speranza. Ma la finzione non regge all’angoscia dell’abbandono: subentra il momento dello sfogo, delle disperate dichiarazioni d’amore e di gelosia (“Io ti vedo, sai. Ho gli occhi al posto delle orecchie”), della confessione di un tentato di suicidio, della resa dei sentimenti: “Se tu non mi richiami io divento pazza…io soffro, io soffro da morire, soffro e questo filo è l’unica cosa che mi unisce a te”. Nell’ultima breve telefonata è la donna che, con il filo intorno al collo, quasi fosse il cappio di un capestro, implora l’uomo affinché sia lui a interrompere, perché a lei sarebbe impossibile. Urla un disperato “ti amo!”, destinato a cadere nel vuoto. Il telefono non la soccorre più.
Nel finale dei due film le due donne si aggrappano al telefono come fosse l’ultimo appiglio che le tiene in vita. L’assenza di comunicazione, anzi la fine della comunicazione, sancisce un definitivo distacco dal mondo. Nel thriller americano quel distacco coincide con la morte della protagonista. Ma anche nel film di Rossellini c’è un senso di morte, anche se non materialmente inflitta. La donna che chiede all’ex amante che sia lui a interrompere la telefonata è come una malata terminale, che invoca di staccare la spina.