Nessun colletto è identico a un altro...
Le giovani donne ritratte nella foto del 1956 sono assistenti di commutazione della Stipel e indossano, come da contratto, il vestiario previsto: grembiuli e colletti bianchi. E’ la “divisa” prescritta dall’azienda per impiegate e centraliniste. Nessun colletto, però, è identico a un altro, segno che nell’obbligata uniformità c’era evidentemente spazio per un margine di personalizzazione. E così, come documentano le tante immagini di donne al lavoro, ognuna a suo gusto sceglieva il colletto tondo o quello a punta, di piccola o grande dimensione, ricamato o magari fatto di pizzo o all’uncinetto (foto n. 2 e n. 3): nella cura di un dettaglio si concretizzavano spazi di libertà, seppur minuscoli.
Indicazioni specifiche sulla “divisa” (e poi sul “vestiario”) si trovano nei contratti collettivi dagli anni ‘30 ai primissimi anni ’90. Se nel 1934 si specificava che la spesa della “divisa” o di “altro indumento uniforme” doveva essere sostenuta per 1/5 dal dipendente e per il resto dalla Società, nel contratto Stipel siglato nell’agosto del 1945, il primo dopo la Liberazione, si sanciva che l’intero costo spettava alla Società che avrebbe fornito gli indumenti e la stoffa per confezionarli o l’equivalente indennità nel caso che il personale fosse invitato a provvedere a proprie spese. A testimonianza della penuria dei tempi veniva previsto un “premio di conservazione” per il personale che fosse riuscito a mantenere in buone condizioni la propria divisa anche oltre il periodo previsto.
Nei contratti degli anni ’50 si specifica che gli indumenti che sono prescritti al personale maschile e femminile sono “concessi in uso”. Per il personale femminile di ufficio due grembiuli neri e quattro colletti bianchi ogni due anni mentre per il personale di commutazione femminile, oltre ai grembiuli e ai colletti, anche “un paio di pantafole con suola di cuoio ogni due anni o con suola di corda ogni sei mesi”.
Nessun colletto è previsto invece per le donne che operano nelle centrali con “sistema passo-passo” che, come i notturnisti (foto n. 4), sono tenute a indossare delle “vestaglie”. Le uniche donne a cui è prescritta la “tuta” sono quelle che lavorano nelle centrali con “sistema rotante”. Ma nessun documento fotografico, finora, ci testimonia la presenza di queste lavoratrici.
La documentazione fotografica è anche controversa in riferimento all’uso delle pantofole. Solo in alcune immagini, come nel caso della centrale interurbana di Torino (foto n. 5) c’è evidente uniformità nella foggia delle calzature, più frequentemente, come per esempio nella foto della centrale della Fiera di Milano (foto n. 6), ogni centralinista calza quello che le pare: dalla pantofola alla scarpa con il tacco.
Nel contratto del 1978 scompaiono riferimenti a colletti bianchi e a pantofole, rimane la dotazione della vestaglia, che nel contratto del 1981 e poi del 1992 saranno fornite solo su richiesta. Fuori dall’azienda, nelle scuole, da tempo dei grembiuli neri obbligatori per le ragazze si era persa memoria.