Durante la grande guerra i telefonisti si trovavano sovente in prima linea con il compito di intercettare le comunicazioni del nemico, oppure venivano collocati in luoghi più protetti se dovevano occuparsi delle comunicazioni interne. Con questi compiti delicati finivano per distinguersi dal resto dell’esercito.
Di essi e delle azioni in cui si trovarono coinvolti ci restano oggi dei vivi ritratti nelle migliori pagine della letteratura sulla prima guerra mondiale. Fra gli autori dei romanzi di guerra più noti si possono ricordare Giovanni Comisso, Riccardo Bacchelli ed Emilio Lussu. Più difficile, vista la scarsa penetrazione del mezzo, è invece ritenere che i soldati al fronte facessero un grande uso del telefono per mettersi in contatto con i propri cari.
Tuttavia nell’immaginario collettivo il telefono iniziava a occupare un posto importante come testimoniano le cartoline postali di quegli anni, il cui uso era allora di massa e nelle quali il telefono veniva molto spesso rappresentato.
Tra i ricordi di Giovanni Comisso
Giovanni Comisso (1895-1969), autore di numerosi racconti e opere memorialistiche, partecipò alla prima guerra mondiale come ufficiale delle comunicazioni. I suoi ricordi furono pubblicati nel 1931 nel libro dal titolo Giorni di guerra.
Rievocando i propri ricordi come in un diario, Comisso racconta diversi episodi legati ai militari telefonisti e al funzionamento delle linee telefoniche. Tra essi, alcuni passaggi del diario si soffermano in particolare sulla descrizione della vita quotidiana di un gruppo di militari impiegati in una postazione telefonica e sui danni che molto spesso venivano provocati alle linee di comunicazione dai continui combattimenti.
In trincea. Da “Giorni di guerra”, Milano, 1931
In trincea gli spari sono continui e provocano frequenti guasti alla linea telefonica. I soldati, isolati, si sentono più vulnerabili, diventano nervosi e trovano sollievo in una sigaretta.
“La linea funzionava, diedi notizie di noi all’osservatorio e ancora ebbi la pretesa di dire al telefonista che avvertisse il maggiore di artiglieria che ci tiravano addosso come arrabbiati e facesse un poco sparare i suoi pezzi. Il mio compagno, con il suo fucile da fanteria a tracolla, tranquillo e curioso frugava in ogni angolo del bugigattolo. Avevamo con noi sigarette, ma ci mancavano i fiammiferi. A forza di cercare egli riuscì a trovare per terra un cerino e con cura lo mettemmo ad asciugare al sole, ma vi era poco da sperare. Difatti, appena strofinato, si disfece senza accendersi. Potere fumare sarebbe stato un piacere immenso e indispettiva di non riuscire. Pareva che i tiri contro di noi fossero cessati e alzata la testa per guardare sulla pianura da prima ci si accorse di Gorizia vicina, tutta bianca nelle sue case e poi di un ufficiale che avanzava quasi correndo. Come ci arrivò accanto, gli domandai se mi poteva prestare la sua scatola di cerini. Si arrestò sorpreso e buttata la scatola proseguì via in fretta senza attendere la restituzione.Fumare seduti sulla soglia del piccolo stambugio, metteva quasi voglia di rimanervi per tutta la vita. Il mio compagno si chiamava Cardinale e mi faceva pensare a quegli uccelli esotici dallo stesso nome bonaccioni e che non cantano mai. La vita di trincea aveva dato al suo grosso volto pieghe pesanti come segni di una sensualità che lo dominasse di continuo. E il suo silenzio si accordava con questa. Si provò ancora la linea, non funzionava più. Uscimmo allora dal rifugio e si andò in cerca del guasto”.
Notizie dal fronte. Da “Giorni di guerra”, Milano, 1931
“Quando si pensa a quelli che sono in trincea, noi dobbiamo sempre consolarci del nostro stato”: sono le parole pronunciate da un capitano giunto in una postazione di telefonisti. Li trova in un momento di riposo, in attesa di notizie dal fronte: la guerra infatti si combatte in trincea.
“L’autunno si avvicinava, me ne accorgevo dai soldati che non venivano più al bagno, il Natisone cominciava a riprendere le sue acque e le linee telefoniche nell’aria più umida si facevano rumorose di voci estranee e di ronzii. Avevo vissuto così felice le mie ore di libertà, nudo, e le sere consolato dalla piccola serva, che finivo per non sentirmi più legato alla vita militare. Si mangiava magnificamente con i viveri forniti dal nostro amico della sussistenza e preparati con cura dal veneziano. Il servizio era anche diminuito e se si stava al telefono era più per ascoltare le notizie dal fronte che per altro. Un giorno venne improvviso il nostro capitano, non per ispezionare, ma per riposarsi da un lungo giro che aveva fatto in autocarro. Subito gli si offerse un caffelatte e siccome aveva una grande sete gli si fece anche una limonata. Pareva ci guardasse con invidia. Strinse la mano a tutti nell’andare via e a me disse scherzoso se volevo fare cambio con i suoi gradi. Poi aggiunse che si parlava di un prossimo corso per allievi ufficiali, obbligatorio; per quelli che avevano titoli di studio come me. Trasalii per l’inquietudine, egli la vide nei miei occhi e soggiunse: Quando si pensa a quelli che sono in trincea, noi dobbiamo sempre consolarci del nostro stato. E ripartì con il suo solito sorriso come la mattina che mi buttò dalla finestra la licenza.”