I social network dei nostri giorni, da Facebook a Twitter, per citare i più popolari, rappresentano fenomeni sociali e di costume che si prestano a molte e diverse interpretazioni, spesso contrastanti fra di loro.
Sono concettualmente la versione aggiornata delle originarie “comunità virtuali”, con modalità e potenzialità d’interazione prima non immaginabili e oggi possibili grazie alla tecnologia di rete nota come web 2.0. Ma che cosa si intende per “comunità virtuale”?
Il concetto fa riferimento all’uso di Internet come mezzo di comunicazione e di partecipazione per la creazione di relazioni, a struttura decentrata e paritaria, esistenti (esclusivamente o meno) nella rete.
Fu Howard Rheingold, giornalista e studioso dei processi cognitivi della comunicazione on line, a lanciare, nel 1992, l’espressione di “comunità virtuali”, definendole come “aggregazioni sociali che emergono dalla Rete quando un numero sufficiente di persone si impegnano abbastanza a lungo in discussioni pubbliche, con un discreto feeling umano, creando delle ragnatele di relazioni personali nel cyberspazio”. Fondava il “mito buono” della Rete a partire dalla propria esperienza personale, che era quella della comunità on line “The Well”.
Gli hacker e il cyberspazio
Il mito ha alimentato molte illusioni largamente divulgate prima ancora che Internet fosse accessibile ai privati, quando la “Rete” veniva assunta come occasione e simbolo di una cultura alternativa a quella tradizionale, insofferente di ogni tipo di limitazione imposta da confini fra Stati, gerarchie, poteri costituiti o sistemi protetti.
Il prototipo dell’eroe positivo di questa nuova realtà era il giovane hacker, il cavaliere delle nuove “libere frontiere elettroniche”. La metafora della “frontiera”, che riprendeva uno dei miti più radicati della cultura americana, inplicava l’idea di spazi “liberi” da scoprire e conquistare, un nuovo mondo più libero e democratico, teatro di nuove coraggiose avventure.
Solo negli anni Novanta la parola hacker assunse l’accezione negativa di “pirata informatico”. E’ degli anni Ottanta anche la diffusione del termine cyberspazio, coniato da William Gibson nel romanzo di fantascienza Neuromante. Il cyberspazio è uno spazio concettuale, l’ambiente di comunicazione creato dalla telematica, il luogo in cui si sperimentano le forme estreme di libertà, che superano sia i limiti imposti dai corpi sia l’oppressione causata dal controllo totale delle macchine sugli individui.
Fuori dalla fantascienza
Fuori dalla fantascienza, nelle pagine di cronaca nera e non solo, Internet all’origine (ma in parte ancora adesso) è stata non di rado descritta come luogo pericoloso dove, al riparo dell’anonimato, si poteva (o si possono) muovere liberamente adescatori di bambini, di adolescenti e di donne sprovvedute, oltre che truffatori di tutte le risme.
Accanto a una immagine così negativa, negli anni Novanta se ne affermò un’altra di segno opposto ma ugualmente falsa e perciò pericolosa. Internet come il nuovo Eldorado, dove poter facilmente conseguire stupefacenti successi economici; la “new economy” dei tanti sogni di ricavi immediati e facili, e poi dei tanti fallimenti e disastri finanziari.
Ma oggi cosa è Internet? Ogni definizione finisce per essere riduttiva, distorta e alla fine sbagliata. Internet è, infatti, sicuramente una parte di mondo, dove istituzioni pubbliche e private, enti e imprese, uomini e donne, giovani, anziani e bambini agiscono e fanno esperienze, in tutti i campi possibili: economia, commercio, finanza, politica, tempo libero, intrattenimento. Ma è anche uno spazio per gli affetti e le amicizie, per lo studio e la ricerca, per la riflessione e l’apostolato, oltre che un campo di azione per il raggiungimento di fini poco nobili e in alcuni casi illegali.
E’ nella Rete che alcune parole che caratterizzano il nostro tempo, come “globalizzazione”, “convergenza”, e “multimedialità”, hanno assunto evidenza e concretezza.